di Bruno Marra

Lo hanno ribattezzato “il guanto” perché la palla sembrava essere stata accompagnata in porta non dal piede, bensì da una mano miracolosa. Il 3 novembre del 1985 a Napoli pioveva, di quelle tempeste inaudite, talmente rare dalle parti nostre che i napoletani ogni volta non se ne fanno una ragione e si mettono a parlare a tu per tu con nostro Signore. Come una preghiera paritaria, faccia a faccia. “’ O Pataterno s’è scurdato ‘e l’acqua”. Ma quel giorno non fu una dimenticanza, non era distrazione. Era il segnale della rivoluzione. Nel pomeriggio giocavamo contro la Juve. La squadra che Maradona aveva imparato a memoria, perché da un anno e mezzo gli ripetevamo sempre la stessa filastrocca. “Da quando sono arrivato mi fermano per strada e mi chiedono di battere la Giuve”. Così la chiamava Diego: la Giuve.
E la Giuve quel giorno veniva a casa nostra senza aver mai perso in campionato. Non aveva mai neppure pareggiato. Aveva sempre vinto, da otto giornate consecutive, una appresso all’altra. I giornali escono tutti col titolo: “La Signora cerca la nona sinfonia”. Ma la musica stava cambiando.
Il San Paolo è una piscina, non c’era ancora la copertura dello stadio, e quella pioggia ce la sentivamo fin dentro le ossa. Ma il cuore ci diceva che doveva essere la volta giusta. L’orizzonte di Fuorigrotta è scuro come la mezzanotte. Ma ad un quarto d’ora dalla fine il cielo si squarcia di LUCE.
Punizione per noi in area. La barriera juventina è a 4 metri, contro ogni legge umana, ma non divina. Pecci mette il piedone sul pallone e ascolta la voce del Signore: “Toccamela Eraldo, toccamela!”. Maradona accarezza la palla e la solleva contro la gravità fino all’incrocio dell’Universo. Diego agita il “guanto” e il San Paolo diventa la fine del Mondo.
Battemmo la “Giuve” e cominciammo a pensare che fosse solo il primo desiderio. Esattamente il 3 novembre di 35 anni fa. Quando per la prima volta un popolo intero alzò il pugno verso il cielo.

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